La Città

(La strada, amico mio, è una sirena vestita che ha una sua luce, profumo, ondeggiamento e canto…)

di Andrea Sardi

CAFE’ DOMINGUEZ – “… vagando per le strade si dimentica il proprio dolore e io ti dico che ho vagato tanto. Scivoli attraverso loro, un mare di persone, e quasi non fai fatica a camminare. Sei come una foglia appassita, indifferente, che corre o non corre così come vuole quel mare. E alla fine vedi tutte le cose come se sognassi: l’uomo, la donna, la macchina, il boschetto. Il mondo in un turbine passa, come se rotolasse. E tu stesso sei solo un’altra cosa che rotola.” [La calle, poesia, dalla raccolta “Ciudad”, Baldomero Fernández Moreno, 1915] .

A questa poesia fa eco un tango recente “Cosa ci resta, città? Solo questo oblio … In quale ultima curva appassisce la speranza di un sogno che non è stato, un profumo di geranio e una ragazza? Oggi le tue alte finestre di silenzio mi regalano i fiori della noia e sul tuo brutale asfalto vanno motori e persone, mille occhi lontani, mille dimenticanze…” [Ciudad de olvido, Tango, Música: Damián Torres, Letra: Gustavo Visentín].

Entrambi i componimenti esprimono lo sgomento dell’individuo, strappato dalla prima rivoluzione industriale al mondo rurale con i suoi riti consolidati nei secoli, i suoi paesaggi noti e spinto, insieme a milioni di altre persone, nella fauci del vorace mostro della grande città manifatturiera. Qui, inglobato in luoghi senza alcun riferimento, l’individuo si sente sperso e spersonalizzato, “solo un’altra cosa che rotola” in un mondo che gli rotola intorno.

Dopo un’adolescenza trascorsa nelle campagne ho vissuto in dieci città e talvolta ancora mi sovviene lo sgomento avvertito in questo errare da un luogo all’altro, anche solo per una tonalità diversa del tramonto, per l’accento d’un tratto estraneo delle voci e persino solo per le piccole mancanze, come aprire una finestra al mattino e non trovare quel campanile o quel promontorio a me familiari, sostituiti ora da un tetto affollato da antenne, ora dalla facciata di un palazzo che mi fissa indifferente. D’un tratto, tutto ciò che nel tempo mi ha accompagnato non c’è più e quel che lo ha sostituito mi disorienta. La nuova città appare solo un deserto affollato, una pagina scritta da una mano bizzarra, con calligrafia disordinata e sentire incomprensibile, con parole che non si possono cambiare, ma alle quali si deve pur dare un senso, per sopravvivere. “Travolto dalla vita da errante bohémien mi trovo, mia Buenos Aires, arenato a Parigi. Dolente, sgomento, ti evoco da questo Paese lontano. Guardo la neve che cade dolcemente, dalla mia finestra che si affaccia sul viale, le luci rossastre e morenti sembrano pupille estranee che mi fissano …” [Anclao en París, Tango 1931, Música: Guillermo Barbieri, Letra: Enrique Cadícamo].

Eppure nel Tango, nella cultura che lo esprime, elaborata da uomini e donne come me esuli, per scelta o spinti dal Destino, si compie un miracolo: la città si trasfigura e diviene addirittura un riferimento, elemento di ordine anziché ambiente ostile al quale sopravvivere. Come ho raccontato in altre conversazioni, la rappresentazione drammatica di ogni Tango si svolge su due piani paralleli, la Città e l’Anima (del poeta e quindi del cantore e di chi ascolta) e su entrambe le scene si fronteggiano i due opposti: la Sorte Favorevole (Éxito) e la Sorte Avversa (Fracaso). Tuttavia la città del tango è molto di più di un semplice scenario e molto diversa dalla città alienante, la unreal city di Elliot e da quella cupa e fredda della pittura del die Brucke.

Polarizzata tra l’Arrabal (la periferia, luogo di antichi valori) e il Centro (luogo in cui l’essere umano si smarrisce inseguendo lusso e successo o effimere passioni) la città del Tango vede a sua volta il primo caratterizzato da una struttura simbolica concentrica, ascendente verso il Sacro: nell’ordine troviamo il Barrio (il quartiere natio), il Conventillo (aggregato di più abitazioni), il Patio (il cortile tra queste racchiuso), la Casa (che è sempre quella dove si è nati, quella degli affetti familiari) e l’Hogar (il Focolare, che con il calore e la luce della fiamma rappresenta lo Spirito della Famiglia). Vi sono tanghi che celebrano ciascuno di questi luoghi e tanghi che li attraversano nel viaggio dall’Arrabal al Centro, rincorrendo sogni ed illusioni e dal Centro all’Arrabal, cercando un rifugio dopo la sconfitta e la delusione. “Un frammento di barrio, là in Pompeya, che s’addormenta sul fianco del terrapieno. Una lanterna che oscilla sulla cancellata e il misterioso addio che si lascia indietro un treno. Un cane che abbaia alla luna e l’amore nascosto in un portone. I rospi che ballano nella laguna e in lontananza la voce del bandoneon…” [Barrio de tango, Tango 1942, Música: Aníbal Troilo, Letra: Homero Manzi]. Uno stupendo affresco di una scheggia di città che nel barrio si riporta ad una dimensione quasi bucolica: il cane che abbaia alla luna, i rospi che ballano nella laguna, vicino al terrapieno dove si adagia, addormentandosi, il quartiere.

Nel barrio si consumano gli amori giovanili mai dimenticati “Prima l’appuntamento d’un aprile lontano, il tuo balcone buio, il tuo vecchio giardino. Più tardi le lettere scritte con mano febbrile, mentendo che no!, giurando che sì! Romanza di un barrio, il mio, il tuo amore. Prima la passione, poi il dolore, per una colpa che mai abbiamo avuto, colpa per cui dobbiamo soffrire entrambi… ” [Romance de barrio, Vals 1947, Música: Aníbal Troilo, Letra: Homero Manzi].

Il barrio prende il posto del paesetto natio lasciato dagli immigrati “Il mio barrio festeggia con il suo miglior sorriso e una strana tenerezza mi invade il cuore. Sembra che le ore scorrano più veloci e che dallo stesso fango germogli un canto… Carnevale del mio quartiere, dove tutto è amore, campane che ridono attenuando il dolore… Carnevale nel mio quartiere, piccolo raggio di sole, nostalgia della luna e canto delle lanterne…” [Carnaval de mi barrio, Tango 1938, Música: Luis Rubistein, Letra: Luis Rubistein].

Anche se si è ormai persa la speranza di fare ritorno, magari dopo aver fatto fortuna, a quel paesetto lasciato con dolore, al barrio si guarda con nostalgia quando si è lontani, sentendolo più vicino, più raggiungibile. “Strade dove sorgeva il mio bel quartiere, strade che conservano i miei ricordi di ieri; ritorno come un’allodola, portando le mie canzoni… Torno ai piedi della tua finestra, per evocare le mattine e quanto mi sentivo felice quando un canto melodioso interrompeva il riposo della donna amata. Oggi, vago per le tue strade, barrio che non sono mai riuscito a dimenticare, anche se la mia assenza è durata a lungo…” [Barrio viejo, Tango 1928, Música: Guillermo Barbieri, Letra: Eugenio Cárdenas].

La città sublimata del Tango è in fondo solo e soltanto Buenos Aires “Mia amata Buenos Aires, quando ti rivedrò non ci saranno più dolore e oblio. La lanterna della strada dove sono nato fu testimone delle mie promesse d’amore, sotto la sua tenera luce la vidi, la mia ragazza, luminosa come un sole. Oggi che il Destino vuole che ti riveda, città portegna del mio unico amore, e sento il lamento di un bandoneon e dentro il petto, il cuore che chiede di parlare…” [Mi Buenos Aires querido,Tango 1934, Música: Carlos Gardel, Letra: Alfredo Le Pera]

Se si ascolta il Tango con il cuore, le sue stesse parole svelano l’arcano della sua Città, testo dopo testo: è una città invisibile fatta di ricordi vividi _ profumi, colori, nomi, sguardi, persone e luoghi perduti _ che risorgono in relazione all’esperienza con la città visibile, oggettiva, concreta, in modo così intenso ed immediato da essere ancora più reali di questa, cogliendone l’essenza ultima che è tuttavia opposta alla manifestazione apparente. La città visibile, continuamente elaborata e sublimata nel tempo da milioni di esseri umani, è non solo evanescente manifestazione della realtà vera, ma irriconoscibile se paragonata a questa: mentre la città invisibile afferma i valori assoluti e attraverso questi rassicura, accoglie e protegge spiritualmente l’Uomo, quella visibile è una realtà spesso dura ed ingiusta, come racconta questo poveraccio, in carcere solo per aver rubato del pane per sfamare la propria famiglia “… I suoi bambini non piangono tanto per piangere, o per avere dolcetti… Signore!… i suoi bambini muoiono di freddo e piangono, bramando del pane… E anche sua moglie, sempre più magra, con il suo sguardo l’intera tragedia gli ha fatto capire. Lavorare… Dove? Stendere la mano, chiedere l’elemosina, perché? Per poi ricevere l’affronto di un “Perdono, fratello, non posso!”… Si sono addormentati tutti, è uscito per rubare… Un vetro, delle grida! Aiuto!… Una corsa!… Un uomo che piange e un pezzo di pane…” [Pan, Tango 1932, Música: Eduardo Pereyra, Letra: Celedonio Flores].

L’uomo moderno, allontanandosi dai valori affermati dalla città invisibile, così rispondente alla polis ideale che protegge e mette ordine, vive in una città reale che diviene una sorta d’inferno, come afferma Calvino a proposito del suo “Le città invisibili”. A lui fa eco Horacio Ferrer “E fu allora che dicemmo: Signore, dacci la grazia di costruire città che siano uguali agli alberi, che donano frutti prima di seccare (Genesi, versetto primo, capitolo 1972 del futuro testamento). Città, fondate per odiare… Città, cadaveri in piedi. Città, alla polvere tornerete … Come sarà bello ricostruire! Cara, ti bacio fino a generare un figlio con volo di muratore di pace… Che bello, nasce una città… E in ogni pozzanghera ci sarà un frammento di mare e in ogni forgia un inventore di sole e in ogni porta l’iscrizione astrale e in ogni uomo un apprendista di Dio. Città, che saranno. Città, ho sentito la vostra annunciazione” [Las ciudades, Tango, Música: Astor Piazzolla, Letra: Horacio Ferrer].

L’aspirazione è quella di costruire una città divina, dove l’Uomo è in contatto con la sua più profonda spiritualità, dove è “apprendista di Dio” e vive in armonia la sintesi del reale con l’ideale.

Peccato che il mondo abbia scelto una strada opposta a quella auspicata da Ferrer, che chi lo governa sempre più persegua la realizzazione di città-prigione, senza spirito né valori, costruite a tavolino per tristi scopi egoistici a malapena nascosti da risibili pretesti ecologisti. Una città da vivere in macro celle larghe quindici minuti, che andrà bene per un transumano forse, un essere robotizzato mosso da algoritmi sempre più banali, senza più sentimento, passioni, valori.

Un transumano progettato da folli menti che vogliono sostituirsi a Dio.

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